La macchina del tempo esiste ed è una nave. Se ne sta ancorata a Luxor, alcuni chilometri a Valle della chiusa di Esna. Tutte le settimane salpa per un viaggio verso il meridione e verso il passato. Pochi minuti di navigazione e si sprofonda in un mondo magico. Un mondo verde, rosa ocra. Verde come i palmeti che accompagnano la corsa del fiume. Rosa come la sabbia del deserto a ridosso delle piantagioni. Ocra come la pietra con cui gli egizi hanno innalzato i loro templi. Il viaggio verso il passato avviene nel silenzio assoluto. Il silenzio di quando ancora i motori non esistevano. Il silenzio rotto solo dal raglio degli asini che segnalano la vicinanza di un villaggio. L'ambiente è rimasto quello di quattromila anni fa. Di quando i faraoni erano i sovrani più potenti della terra. Di quando Iside e Osiride erano i padroni dei cieli, dei fiumi e del deserto. Di quando le prime piramidi cominciavano a salire verso il sole e lungo il fiume non esistevano ancora il cavallo e la ruota. La crociera sul Nilo è un viaggio sulle acque e un viaggio a ritroso nella storia. Alla scoperta delle radici della civiltà e della religione. E nell'antico Egitto la religione, come la civiltà, nasce dalla natura, dall'acqua e da quanto la circonda. Dalla luce che feconda i campi. Gli dei che popolano il primo Pantheon creato dall'uomo sono il sole, il Nilo, il coccodrillo, la mucca, lo sciacallo e tutti gli animali che vivono tra fiume e deserto. Si chiamano, Ra, Aton, Amon, Sobek, Anubi, abitano in cielo, ma vengono dalla terra. Sono il limo che rende fertili i campi, i raggi caldi che li fecondano, gli armenti che aiutano l'uomo nel suo lavoro. I pilastri su cui si fonda la prima grande civiltà agricola del Mediterraneo. Gli stessi su cui si fonda, ancora oggi, la vita, lenta e molle, lungo il fiume. Navigando verso mezzogiorno, da Esna alla prima cataratta, dove è stata costruita la diga di Assuan, si incontrano le preghiere di pietra innalzate agli dei dagli antichi sacerdoti. Il primo tempio ad apparire, dopo una breve navigazione tra sabbia e palmeti, baciati dal sole del tropico tiepido in questi giorni d'inverno, è quello di Edfu, dedicato al dio Horus, il dio dalla testa di falco, figlio di Iside e Osiride, con cui formava la prima trinità della storia umana. Ancora una lunga corsa nel silenzio e nella luce accesa, ma non accecante, ed ecco stagliarsi l'inconfondibile sagoma di Kom Ombo, il santuario dedicato al dio coccodrillo, Sobek. Un omaggio al Nilo, alle sue acque e al limo, che ad ogni inondazione rendeva fertili le terre egizie. La crociera finisce ad Assuan, dove si incontra il tempio di Philae, uno degli angoli più fotografati del mondo. Qui, accanto al chiosco di Traiano, si trova il piccolo tempio di Hathor la mucca celeste. Per vedere il più celebre monumento egiziano, Abu Simbel, bisogna scendere dalla macchina del tempo, arrivare all'aeroporto e imbarcarsi su un Airbus. E' il ritorno al futuro.
Settembre, in Marocco, è il mese più dolce. Le torride temperature di agosto si ingentiliscono, l'aria si fa lieve e profumata. Laggiù, in fondo in fondo, nel verde delle oasi del Sud, cominciano a maturare i primi datteri. I colori sono tenui e delicati, il cielo trasparente e leggero. È il momento migliore per infilarsi nell'aereo e puntare su Marrakech. Un nome magico, un luogo magico. Un nome che come Timbuctu o Samarcanda, Damasco o Singapore, evoca scenari incantati, atmosfere mitiche; e nella città imperiale si vive tra mito e incanto. Tutte le emozioni sono filtrate dal colore arancione delle case, dal profumo soave e penetrante della menta, da quello decadente delle rose. Le cicogne volano alte nel cielo. Gli incantatori di serpenti suonano le loro nenie nello slargo della Djemaa el-Fna. Gli olivi disegnati sul tappeto verde dei giardini, frusciano leggeri, mossi da un vento tiepido e sinuoso. I sapienti arabaschi della Koutoubia e della medersa di Ali ben Youssef si offrono agli occhi del viaggiatore molli e intriganti. Nel Souq, voci, colori e odori salgono inquietanti mescolandosi al calore dell'asfalto. Il lezzo acre del cuoio, i rossi e i gialli dei tessuti, il richiamo malizioso dei mercanti si perdono nella polvere e nel vapore. Il sole, che in estate taglia l'aria come una lama d'acciaio, ora arriva soffuso e delicato.
Il viaggio nella dolcezza decadente del Sud marocchino è solo all'inizio. Le Land Cruiser, come cammelli d'acciaio, lasciano l'afrore della città e puntano a meridione scavalcando le vette dell'Atlante. Qui il verde dei boschi è temprato dal bianco immacolato delle nevi. L'aria è frizzante. Nei luoghi di posta, le strette tazze da tè fanno salire l'afrore della menta, il vapore si materializza in una nuvoletta profumata. Lentamente, le vette si arrotondano, le montagne si addolciscono, le strette gole montane si aprono nella larga valle del Dadès. Ed ecco l'oasi di Skoura; ancora un luogo magico. Dove il tempo si è fermato. Niente linee elettriche, niente automobili, niente televisione. Il cielo è una grande tavola di lapislazzulo, le stelle brillano come diamanti, e solo il raglio di un asino rompe il silenzio della notte. Si dorme sotto un tetto sostenuto dal bambù, il profumo della paglia mescolata alle mura di fango riempie il buio più profondo. Al risveglio, i colori sono il verde delle palme e il rosa tenue della sabbia. Il viaggio ricomincia. Il mattino si colora di ocra. Ocra sono le rocce, ocra la terra, ocra Kasbah e Ksar che corrono lungo la strada per Ourarzazate. I metafisici castelli di fango, come rapiti dai quadri di Salvador Dalì, accompagnano, stanchi e sbrecciati, i viaggiatori diretti verso i bordi del Sahara infuocato. Qui, dove comincia l'immensa distesa di sabbia, le mani sapienti dei capi delle tribù locali hanno costruito un gioiello talmente ben cesellato e ricco di atmosfere da essere stato scelto da decine di registi come scenario dei loro film. Qui Bernardo Bertolucci è sceso per girare una larga fetta de «Il tè nel deserto», un canto alla bellezza del Marocco. Il grande spettacolo dell'erg comincia pochi chilometri più avanti, tra le duna di Marzuqa. Il sole e la sabbia, attori insuperabili, recitano ogni giorno la stessa parte in un film che si ripete da secoli. Un film fatto di colori e di ombre, di colpi di luce penetranti e di tenui irradiazioni. L'alba arriva gialla e argentata: le dune proiettano sagome nere e lunghe, che si accorciano durante la mattinata. A mezzogiorno scompaiono e tutto diventa metallico, accecante. Nel pomeriggio la sabbia ritorna gialla, poi rosa, e quando il sole comincia a tramontare, mentre le ombre si allungano di nuovo spaccando le dune a metà, eccola per incanto farsi arancione. Pochi attimi. Il sole viene inghiottito dal Sahara sterminato. Tutto diventa blù. Gli arabeschi del cielo eguagliano in bellezza quelli della Koutoubia. Silenzio tutto intorno. Dal deserto arriva un soffio tiepido. È il momento di appoggiare la schiena sulla sabbia ancora calda e lasciare correre gli occhi lungo la via lattea. Da sabbia a sabbia. Dal deserto a Essaouira. Ecco le spiagge lunghe e strette dell'oceano Atlantico. Battute da un vento freddo e impietoso che scaglia le vele dei surfisti verso l'orizzonte lontano. Un paradiso per gli amanti della tavola. Un inferno per i nuotatori. Ancora un paradiso per chi adora i colori puri, l'aria tersa, la musica conturbante che nasce dalla fusione delle nenie arabe e delle percussioni dell'Africa più profonda. Si chiama Gnawa, questa inconsueta mescolanza di suoni, e parla di spiriti, di mondi invisibili. Gnawa è l'arte dei guaritori negri arrivati in Marocco come schiavi in epoche lontane. Gnawa è un modo di curare il corpo e l'anima che passa attraverso la magia e le note. Gnawa è un ritmo ossessivo e martellante. Gnawa è qualcosa che non sta mai fermo, che si trasforma. Ai primi semplici suoni sciamanici si sono aggiunte contaminazioni arabe e orientali. E poi sono arrivati il rock, il pop e il jazz. Tutti hanno portato qualcosa di nuovo. E' nato un genere: il Gnawa profano, commerciale, cui ogni anno, in giugno, è dedicato un festival annuale, che richiama a Essaouira i grandi dello star system mondiale. Un evento. Il più grande evento marocchino, una manifestazione che attira migliaia di ragazzi di ogni paese, per ballare, cantare, sballare al ritmo dei tamburi. Parallelo al genere commerciale, sopravvive il filone sacro. Quello in cui un attempato Maallem (il maestro), spesso sotto l'influsso di allucinogeni, suona gli stessi motivi che suonavano gli schiavi negri, senza variazioni e contaminazioni, e, accompagnato da gruppi di tamburi scatenati in ritmi ossessivi, presiede le cerimonie di esorcismo e possessione. Sudando, saltando, contorcendosi, vibrando colpi sulle pelli tirate degli strumenti musicali, guarisce il corpo e l'anima di chi soffre. Di chi gli crede. Ma la bellezza di Essaouira è nei suoi due colori: il bianco e l'azzurro. Tutte le mura sono dipinte intingendo il pennello nei cieli del Sahara e nelle linde spiagge oceaniche. E' una città unica, tersa e trasparente, costruita secondo le rigide geometrie urbanistiche dell'architetto francese Théodore Cornut, che, nel 1765, il sultano Sidi Mohammed ben Alla ha voluto alla sua corte per portare qualcosa di nuovo nello stagnante ambiente indigeno. Ne è nata una città luminosa, originale, non africana, non europea, dotata di una sua anima forte, capace di calamitare nel Sud del Marocco folle di artisti, designer, grandi sarti, musicisti, intellettuali di ogni genere, che hanno fatto della città azzurra la loro casa. Così come tutto il sud del Marocco in settembre è la casa di chi ama il profumo della menta e delle rose, il colore arancione di Marrakech, l'ocra delle rocce, il rosa della sabbia, il verde delle oasi, il giallo e il rosso dei suoq, il volo delle cicogne, il vento tiepido che arriva dal deserto.
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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